Questa la lapidaria domanda posta dal presidente della Federazione, Giorgio Ambrogioni, nel corso dell’ultimo Consiglio Nazionale. Alcuni utili elementi di una riflessione improcrastinabile sono venuti da una relazione del prof. Enzo Rullani, della quale riportiamo i passaggi principali
Il recente Consiglio Nazionale Federmanager, tenutosi il 12 e 13 marzo scorso a Milano, è stato uno dei più densi di contenuti degli ultimi anni. Numerosi i temi affrontati, molto qualificata la relazione del presidente Giorgio Ambrogioni, soprattutto con riferimento alla presentazione del Programma che la nostra Organizzazione sarà impegnata ad attuare nel corso del 2010. Senza entrare nel dettaglio dei singoli punti, vogliamo qui soffermarci sulla relazione tenuta dal prof. Enzo Rullani, docente di Economia della conoscenza alla Venice International University, invitato dalla Federazione ad illustrare una linea di pensiero che pone l’accento sul ruolo e la connotazione che la figura del dirigente assume nell’attuale realtà italiana.
Punto di partenza del suo intervento, una semplice e lapidaria domanda posta da Ambrogioni in apertura dei lavori: “Qual è il ruolo di un’organizzazione come la nostra?”. La risposta, in apparenza semplice, apre un dibattito complesso, che richiede di leggere ed interpretare i fenomeni attuali per trarne spunti utili ad orientare l’azione del manager per il dopo-crisi. Di seguito, alcune delle riflessioni esposte da Rullani.
Da Paese “a basso costo” a produttore tecnologico qualificato
La crisi internazionale che ha coinvolto l’Italia ha molte matrici, con concentrazioni diverse nei diversi Paesi. Per la nostra realtà, un aspetto poco evidenziato è che già da qualche anno, certamente dall’adozione dell’euro, la collocazione dell’Italia è cambiata da Paese a basso costo a Paese ad alto costo, intendendo per basso ed alto costo due valori relativi, confrontati cioè con quelli del resto del mondo. Per anni l’economia italiana si è sviluppata, anche se su molti comparti a non elevato contenuto tecnologico, riuscendo ad offrire il massimo della qualità a costi contenuti. E quando i costi salivano, ripristinavamo il livello di competitività attraverso la svalutazione della lira.
Oggi questo meccanismo si è rotto e non per colpa della crisi, ma per effetto della globalizzazione avanzata, del progressivo sviluppo di Cina, India e di altre economie emergenti che aggrediscono, a costi più competitivi dei nostri, i mercati in cui eravamo particolarmente forti. La crisi deflagrata con la finanza come fattore propellente ci ha coinvolti pregiudicando il nostro modello di sviluppo e, quindi, minando la nostra capacità di reagire.
La via d’uscita è complicata, in quanto l’Italia deve rapidamente compiere la trasformazione da Paese a basso costo a produttore tecnologico qualificato. Di fronte a questa sfida, però, emergono tutti i limiti della realtà economico-sociale nazionale. Parlare di qualificazione tecnologica vuol dire non solo, e non tanto, pensare alla ricerca scientifica, in quanto la domanda mondiale di prodotti ad elevato tasso tecnologico non è poi così ampia. Migliorare ed innalzare la qualità richiede una concezione di più ampio contenuto culturale, che parta dalla consapevolezza che la maggior parte del valore dei prodotti è “immateriale”.Di fronte a ciò come sta reagendo il sistema delle imprese? Non c’è dubbio che le aziende italiane investano poco non solo in termini di ricerca scientifica in senso stretto, ma anche nell’approccio più generale. Così, di fronte alle prime difficoltà, la tentazione immediata è quella di contenere i costi, e fra i costi eliminabili rientrano quelli relativi alle alte professionalità. Il manager non è visto, cioè, come portatore di cultura d’impresa ma come costo eccessivo e, in quanto tale, eliminabile. Si è così assistito a una vera falcidia di dirigenti, allontanati anche in età giovanile, senza tenere in considerazione gli effetti che ciò avrebbe provocato in termini d’impoverimento culturale. Beninteso, la “colpa” non è solo delle aziende. È il Paese che, nel suo complesso, denuncia un’arretratezza in ciò che si definisce “cultura di impresa”; la stessa arretratezza che si riflette nell’eccesso di burocrazia, nella scarsa sensibilità alla formazione scolastica, nelle insufficienze strutturali e di supporto. Come uscirne?
Investire di più e meglio nel capitale intellettuale
Per compiere la necessaria inversione di marcia bisogna stimolare investimenti nel capitale intellettuale e fare leva sulle competenze, ma perché questo auspicio diventi operatività, occorre che investire in competenza risulti conveniente. L’imprenditorialità attuale è, invece, prigioniera della logica finanziaria, per cui l’investimento ha senso solo se il ritorno è misurabile e tangibile nel breve: i Consigli di amministrazione rispondono agli azionisti, e misurano il proprio successo in funzione di un certo livello di remunerazione del capitale che si verifichi anno dopo anno. Ma finché rimarrà la logica per cui abbattere i costi è sempre giustificato purché la Borsa compri le azioni, mancherà l’impulso necessario per invertire la rotta.
La cultura, il conoscere, l’interpretare non sempre danno certezza del ritorno nell’immediato, al pari della ricerca scientifica di cui tutti parlano ma sulla quale non s’investe perché il costo dell’investimento è certo mentre il ritorno è probabile, ma con una probabilità mai uguale a 100. Se il rischio d’impresa aumenta la difesa non può essere il miglior riparo, perché così il futuro continuerà ad essere incerto. Il ruolo dei manager può essere quello di farsi promotori e difensori di un diverso modo di affrontare le sfide imposte dal mercato, con lo sguardo più proiettato al futuro e meno all’oggi.
Articolo pubblicato su Professione Dirigente, periodico Federmanager Roma, n. 29/Giugno 2010