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Un Paese senza governance

Da almeno 15 anni l’Italia non si sviluppa soprattutto a causa di un sistema istituzionale obsoleto, aggrovigliato su se stesso, che non riesce ad attribuire responsabilità. Senza la modifica di questo assetto, anche i migliori progetti sono destinati ad affondare nella palude

La situazione economica dell’Italia continua ad essere molto grave. Da più parti, presidente del Consiglio Mario Monti compreso, si preannunciano timidi segnali di ripresa. Ma i dati obiettivi sono poco confortanti:

– Pil 2012: -2,5%; Pil 2013: +0,3%

– tasso di disoccupazione: 11% (giovanile 34%)

– debito pubblico: quasi 2 mila miliardi di euro

– differenziale fra tassi italiani e tedeschi: 5 punti (anche se in diminuzione)

– avanzo primario; 3-3,5%.

Numerosi esperti ritengono necessaria una manovra tra 2 e 2,5 punti di Pil per conseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Si aggiunga inoltre che per rispettare il Fiscal Compact cui abbiamo aderito, dovremo accantonare tra 45 e 50 miliardi di euro per conseguire l’obiettivo di riduzione del debito.

Circolo vizioso e vincoli internazionali

Se questi sono i dati, appare evidente come l’Italia si trovi in un circolo vizioso nel quale le politiche di sviluppo per stimolare la crescita del Pil non trovano le risorse finanziarie necessarie. Ma se sul piano della diagnosi più o meno tutti gli esperti concordano, sul piano delle terapie le posizioni divergono perché la scelta diventa politica. Il contesto in cui si è manifestata la crisi, a partire dal 2008, ha una matrice internazionale. Fino a quella data il sistema sopportava lo squilibrio tra Paesi fortemente indebitati e altri con un debito pubblico equilibrato. L’esplosione della crisi finanziaria ha messo a nudo ed aumentato l’attenzione sui Paesi totalmente esposti. Il processo di globalizzazione ha accentuato l’intollerabilità nell’eccesso di indebitamento. Ogni Paese è stato bruscamente messo di fronte alle proprie responsabilità e richiamato all’attuazione di politiche di rientro dal debito. I creditori internazionali non sono più stati in grado, o disponibili a fare credito. La crisi ha anche messo in evidenza non solo come le regole a suo tempo fissate per l’istituzione dell’euro quale moneta unica non fossero sufficienti ed idonee a fronteggiare la crisi, ma anche come il rispetto ortodosso delle direttive di Maastricht abbia agito, in qualche modo, da ostacolo all’attuazione di iniziative di sviluppo. Le regole predisposte e il rispetto dei parametri indicati si sono rivelati favorevoli solo per i Paesi più forti, a cominciare dalla Germania che, per proprio merito, ha saputo predisporre politiche in grado di beneficiare delle condizioni poste. Nella filosofia di Maastricht erano deboli fin dall’inizio i principi della solidarietà e del sostegno automatico. Come risultato, con il volgere in negativo della congiuntura economica, il sistema dell’euro è entrato progressivamente in crisi.Rigore o flessibilità?

La situazione è giunta più volte sul punto di rottura e fino ad oggi si sono fronteggiate due linee di pensiero: da un lato i Paesi nel Nord Europa (Finlandia, Olanda, parte della Germania) premono per il mantenimento di una politica di rigore, costi quel che costi; dall’altro si auspica un’applicazione più flessibile dei criteri di Maastricht, con la concessione di una dilazione temporale per l’avvio e del risanamento (su questa posizione si trovano Paesi più esposti come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia). “Di solo rigore si muore” è, comunque, lo slogan che sta prendendo piede in molti settori dell’opinione pubblica europea, con la nascita di schieramenti politici che arrivano ad auspicare la rottura dei trattati. Il momento è estremamente fluido, anche perché in alcuni Paesi (Italia, Germania) è prossima la campagna elettorale, mentre è in pieno corso quella presidenziale negli Stati Uniti. Non c’è dubbio che il solo rigore non risolva la crisi economica e, soprattutto, non favorisca la ripresa occupazionale che costituisce l’aspetto più preoccupante per i Paesi industrializzati, USA compresi. L’imperativo è tornare a crescere, ma non ci sono le risorse finanziarie necessarie e, soprattutto, chi nella crisi ha acquisito posizioni di vantaggio non ha un reale interesse a rianimare una competitività altrui che possa eroderle e rimetterle in discussione.

L’Italia è pesantemente coinvolta. E in ritardo

In questo quadro l’Italia risulta pesantemente coinvolta e le prospettive non sono positive. Fino ad ora il sistema sociale, sia pure attraverso uno sforzo estremamente oneroso per la popolazione, ha trovato soluzioni per mantenere un certo equilibrio. L’incertezza politica aggrava la situazione: l’avvicinarsi del momento elettorale, senza che siano state ancora definite le modalità di voto, e la contemporanea scadenza della Presidenza della Repubblica rendono lo scenario futuro non decifrabile. Ma a prescindere dalla confusione politica, appare possibile individuare due linee strategiche che, anche se non ancora esplicitate in modo chiaro, si confronteranno nelle prossime elezioni. Da un lato i fautori del mantenimento della linea del rigore, come prosecuzione delle linee dell’attuale Governo Monti. Dall’altro i sostenitori di una linea più morbida e meno ortodossa nel rispettare i vincoli europei e attivare iniziative di tipo keynesiano. In entrambi i casi appare difficile e non auspicabile una successiva situazione di frizione rispetto ai trattati europei già sottoscritti. Si può auspicare che le pressioni, non solo italiane, possano portare ad una correzione delle condizioni e dei vincoli europei. Ma quali che saranno i vincoli europei, i problemi strutturali dell’Italia restano tutti ancora presenti e c’è da temere che un ammorbidimento dei vincoli possa ulteriormente indebolire l’attenzione verso iniziative di profondo risanamento si cui il Paese ha comunque bisogno. Il problema di fondo che condiziona e condizionerà comunque le eventuali prospettive di ripresa e rilancio è rappresentato dal debito. Anche in questo caso si fronteggiano due linee: da un lato c’è chi intende perseguirne la riduzione graduale e progressiva, con una visione temporale di almeno 5 anni; in alternativa appare suggestiva la proposta di un intervento drastico, sostenuta da un gruppo di economisti tra cui Paolo Savona e Andrea Monorchio, che suggeriscono di aggredire il debito in tempi più ravvicinati.Una nuova stagione costituente

Ma la crisi dell’Italia non è solo economica, o meglio ancora, la crisi economica non dipende unicamente dal deficit strutturale del sistema produttivo. Da almeno 15 anni il Paese non si sviluppa e la crisi nel 2008 ne ha solo messo a nudo le deficienze che per anni ha nascosto a se stesso. La riduzione del debito è una condizione necessaria ma non sufficiente per ridare slancio all’Italia. La crisi più profonda è costituita dalla mancanza di governance, causata da un sistema istituzionale obsoleto, aggrovigliato su se stesso, che non riesce ad attribuire responsabilità. Le strutture decisionali si sono moltiplicate gonfiando una burocrazia improduttiva che ha prodotto una montagna di leggi, norme, regolamenti al cui interno è impossibile orientarsi, e che alimenta il sistema della corruzione. Su ogni questione o progetto sono autorizzati ad intervenire Comuni, Province, Regioni, Authorities varie, comunità montane e quant’altro. Chiunque è in grado di intervenire per ostacolare, rimandare: dalla realizzazione di una discarica all’installazione di un termovalorizzatore, dal tracciato di una linea ad alta velocità ad un rigassificatore. Siamo senza governance. E l’eventuale disponibilità di risorse finanziarie per investimenti verrebbe inghiottita dall’ingovernabilità. Il decentramento progressivamente attuato nel rispetto dei principi costituzionali è diventato un mostro che produce inefficienza ed aumento di spesa improduttiva (gli eccessi in questo senso sono evidenti, per conferma basti pensare allo stato della sanità in molte regioni). Quale che sia l’esito delle prossime elezioni, nel breve le variabili per interventi tecnici in campo economico non sono molte. Ma in una strategia di più lungo periodo, è necessario che chiunque sarà indicato a guidare il Paese abbia la consapevolezza di dover avviare un processo di profonda revisione di tutto l’apparato istituzionale. È necessario aprire una nuova fase costituente. È vero, in passato sono stati numerosi i tentativi abortiti, ma ciò non significa che non occorra ritentare e insistere: senza la modifica dell’assetto istituzionale, tutti i migliori progetti sono destinati ad affondare nella palude.

 

Articolo pubblicato su Professione Dirigente, periodico Federmanager Roma, n. 39/Settembre 2012

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